Amanda Lear: Paradigma indiscusso della Star
In esclusiva per “Cineincanto” Amanda Lear, un’icona mondiale.
di Carlo Fenizi ....
Chi ha incontrato Amanda Lear sa che quando c’è, l’ambiente attorno a sé si trasforma, stregato dal suo charme arcano e dalla sua bellezza statuaria. Una vita piena di tante vite che presto diventerà un film. Diva internazionale: cantante, attrice, pittrice, attraversa la realtà con gli occhi di chi è capace di andare oltre i sogni e coglierne il segreto. Procede con fiducia in un destino che le ha riservato quella polvere di stelle che il suo David Bowie cantava e che solo pochi possono sentire tra le dita. Venerata ovunque, Amanda appartiene al mondo. Ha trionfato in tutto ciò che ha fatto e, con ironia e profonda consapevolezza, ci lascia ancora una volta incantati dinnanzi alla sua misteriosa presenza e alla sua affascinante vivacità intellettuale.
Amanda attrice di cinema nasce interpretando un extraterrestre in “Ne jouez pas avec les Martiens” di Henry Lanöe (1967) ti ricordi?
Sì (ride, ndr). Facevo ancora la modella e per questa commedia francese, ambientata in un paesino invaso dagli extraterrestri, avevano bisogno di ragazze alte con un fisico statuario per interpretare delle marziane. Mi ricordo queste lenti a contatto pesanti e fastidiose, molto diverse da quelle di oggi. Poi, poco dopo, ho fatto una cosa per la televisione La Vie de Jules Massenet (1973) sulla vita del compositore. Un film in costume in cui interpretavo una delle sue donne. Ero molto giovane e quando rivedo queste prime esperienze mi trovo veramente ridicola. Il cinema lo vedevo da lontano. All’epoca tutte volevano fare le attrici, io no, non avevo nessuna ambizione. Volevo una vita tranquilla, essere una pittrice e vivere in campagna. Il destino, poi, ha voluto per me un percorso diverso, ha voluto spingermi nella strada dello spettacolo, quasi per forza. Però, essendo una pittrice e amando il mondo delle arti visive, come spettatrice di film, ero molto costante e appassionata. Andavo quasi tutti i giorni al cinema. Vivevo a Londra e frequentavo molto la Cineteca con gli amici, con Bryan Ferry dei Roxy music, per esempio. Lui era un appassionato di cinema classico hollywoodiano. Ero affascinata dai colori vividi e infiammati del technicolor.
In Francia ormai da anni, hai un glorioso percorso di attrice, cinematografica e teatrale e sei stata nel cast di alcuni film qui in Italia ultimamente. Domanda comune e controversa, ricorrente nelle mie interviste, a cui mi approccio come fosse una specie di indagine statistica: teatro o cinema ?
Io sono convinta che il vero mestiere dell’attore è il teatro. Salire sul palcoscenico, senza microfono, ricordarsi tutto un testo e dare inizio ad un’interpretazione significa essere un attore. Il cinema è un’altra cosa, con la sua magia, ma è tutto diverso. Mi è capitato, per esempio, di recitare in film in cui dei colleghi non sapevano neanche a memoria la propria parte. È insopportabile. Nel cinema ci sono continue interruzioni ed è difficile concentrarsi, soprattutto per chi, come me, fa e ama il teatro. In qualche modo ammiro molto quegli attori che riescono a mantenere la concentrazione senza farsi intaccare da tutti quegli ostacoli tecnici. Nel teatro sali su quel palco, un’ora e mezza o due ore e non puoi tirarti indietro. Non puoi sbagliare, non puoi rifare. È una cosa molto più rischiosa e spaventosa, ma è molto più eccitante. Adoro lo spettacolo dal vivo e per questa ragione, nel cinema, mi piacciono tutti quei registi che lavorano con i piani sequenza.
Da poco tempo interpreti a teatro, con grande successo, il ruolo di Joan Crawford nello spettacolo francese “Qu’est-il arrivé à Bette Davis et Joan Crawford?” Una diva che interpreta una diva, dal cinema al teatro, raccontando il dietro le quinte del cinema. Com’è andata ?
Ultimamente avevo deciso di non fare più commedie. Forse dopo questi due anni di chiusura e malinconia sentivo di non voler fare spettacoli in cui dovevo far ridere. Poi mi hanno proposto questo spettacolo basato sulla lavorazione del film “Che fine ha fatto baby Jane?” in cui avrei dovuto interpretare Joan Crowford. Non mi ci vedevo con una parrucca nera a recitare una vecchia star di Hollywood, alcolizzata e sul viale del tramonto. Poi mi hanno convinta. Ho capito che poteva essere interessante, per una volta, non interpretare la biondona seduttiva ed entrare in un personaggio vulnerabile, dal fascino decadente. Devo dire che è stata un’esperienza incredibile. Joan Crowford e Bette David erano due miti che già adoravo. Bette Davis, in particolare, ho sempre creduto fosse la migliore attrice di tutti i tempi. Interpreto la Crowford, attrice glamour che andava a letto con tutti i registi, bisessuale e dissoluta. Quando uscì il film a cui si ispira lo spettacolo, la loro carriera era già in declino e, per le due attrici, fu duro ritornare sul set insieme, dopo anni di storica rivalità, per interpretare due sorelle con situazioni simili a quella che era stata la realtà. Si odiavano, ma avevano capito che questo film poteva essere la loro salvezza e il loro ritorno al cinema. Lo spettacolo approfondisce il dietro le quinte del film, con tutti i feroci scontri tra le due dive. Mi sono molto divertita. Abbiamo avuto ottime critiche e a Parigi è venuto anche Macron con la moglie. In Francia sono molto apprezzata come attrice, a teatro e al cinema, in Italia, invece, sono ancora relegata al mondo televisivo e musicale. Mi piacerebbe avere l’opportunità di farmi conoscere in senso attoriale anche dal pubblico italiano. Eppure, all’inizio, molti registi italiani mi dicevano che avrei dovuto fare teatro e cinema. Patroni Griffi e Bolognini per esempio. Se le viene data la possibilità, Amanda Lear è capace di togliersi le ciglia finte e vestire i panni di una barbona.
Io sono un appassionato di tutti quegli artisti spagnoli, pittori e registi che hanno abbracciato il surrealismo. Amanda pittrice in qualche modo risente, nei suoi quadri, di una certa vena surrealista. Mi sbaglio? Partendo da questa mia osservazione, c’è, secondo te, una relazione tra il surrealismo, il tuo periodo con Salvador Dalí e la tua vita di artista e di donna ?
Io penso di sì. É tutto legato attraverso il mondo del sogno che nei miei quadri è molto presente. Il surrealismo di Salvador Dalí mi faceva paura, i suoi incubi, le sue ossessioni sessuali, le sue paure. Il mio è spontaneo, è un modo naturale di raccontare la realtà. Anche quando i soggetti sono realistici, senza accorgermene, il risultato finale sembra uscito da un sogno. In questo mi sembra che tutta la mia vita sia andata così. Come se un qualcosa di magico e onirico mi avesse guidato. In questo senso, ho lasciato molto spazio e ascolto al destino. Credo molto alle teorie di Carl Gustav Jung, alle coincidenze, al caso, all’istinto. Se siamo attenti, la vita ci guida in una direzione molto precisa e ciò che sembra una coincidenza trova delle spiegazioni. I dettagli di tutti i giorni, le piccole cose, il caso, ciò che risiede al di là dello specchio, possono essere una porta per ricevere messaggi. Bisogna aprire gli occhi. La maggior parte dei surrealisti assumeva sostanze, Dalí non lo faceva. Lui credeva solo nel potere dell’immaginazione. Mi rimproverava quando io facevo la “figlia dei fiori”. Mi diceva: bevi un bicchiere d’acqua e vedrai le stesse cose. Mi ha insegnato che l’universo parallelo alla realtà è un modo di percepire le cose, ha solo bisogno di essere allenato. In Spagna e in America latina è molto sentito questo approccio nel cinema, nella letteratura e nell’arte, ma anche in Italia, forse in forma più poetica e sottile. Penso ad Antonioni, per esempio, che non era certo un surrealista, però poteva trasmettere la sensazione del sogno attraverso la sua poesia. Hitchcock, che amo, a modo suo ha ricreato quella dimensione nel film “Vertigo” (“La donna che visse due volte”, 1958). Aveva lavorato anche con Dalí in un film degli anni quaranta con Ingrid Bergman. C’era una sequenza importante in cui lei aveva un incubo e il regista chiese una consulenza a Dalí per la messa in scena. Quando mi parlava di queste collaborazioni, tra tante altre anche con Walt Disney, ero affascinata dai suoi racconti. Io e Salvador incontrammo Hitchcock a Parigi, in un ristorante. Improvvisamente sentii la sua voce che diceva” Hello, Mr. Dalí, do you remember me?”, mi girai e vidi il suo profilo inconfondibile. Fu meraviglioso.
David Bowie fu, in qualche modo, il responsabile dell’inizio della tua carriera musicale…
Anche lui era un appassionato di cinema.
Da lì in poi c’è stata una lunga serie di successi tra cui “Tomorrow” che tu, però, non ami molto. Un giorno mi dicesti che “Follow me” è il tuo pezzo preferito. Perché ?
Io ho cantato canzoni disco di successo che, come molte altre che andavano in voga all’epoca, erano progettate per far ballare e spesso non avevano nessun senso. Io, invece, ci tenevo a fare un pezzo che avesse un testo con un suo senso artistico. Nacque così Follow me.
É stato anche usato per la colonna sonora del film “Dallas Buyers Club” di Jean-Marc Vallée (2013)…
Sì, c’è una scena musicale abbastanza lunga con questa mia canzone. Il film ha ricevuto tre Oscar. “Follow me” nasce dalla cultura tedesca. É la storia di Faust. Ti dà la felicità, la fama e i soldi ma ti ruba l’anima. Ovviamente nessuno ha capito di cosa si trattasse (ride, ndr). Figurati se negli anni ottanta, in discoteca, la gente faceva caso alle parole! Non fregava niente a nessuno (ride, ndr). Scherzi a parte, un po’ mi dispiaceva. La disco music era solo un ritmo e a me sarebbe piaciuto fare canzoni con un po’ più di spessore.
Però “Follow me” ebbe un grande successo…
Beh ci ho pagato l’affitto (ride, ndr). Ho scritto tantissime canzoni. “The Sphinx” e “Lady in Black”, per esempio, mi piacevano molto. Alla fine, però, avevano successo brani come “Tomorrow”, il peggiore di tutti.
É vero che la tua vita è già un documentario e presto sarà un film ?
La rete tedesca Arte ha realizzato questo documentario di un’ora che in Italia uscirà su Rai2. Racconta la mia vita e la mia carriera. Questa cosa mi sa tanto di cimitero…(ride, ndr). Si vedono dei pezzi del programma italiano Stryx e di altri programmi tedeschi. Ci sono documenti dell’epoca: io giovanissima con Dalí e David Bowie. Mi sarebbe piaciuto, però, che avessero approfondito anche la mia pittura e il mio lavoro d’attrice, ma si sono concentrati più sulla mia carriera musicale. In compenso una produzione americana sta producendo, in modo più strutturato, un film vero e proprio sulla mia vita, una specie di biopic. É strano vedere qualcuno che interpreta te stessa. Mi è capitato già. In vari film sulla vita di Dalí c’erano attrici che interpretavano me, che non mi assomigliavano per niente e che dicevano cose che non ho mai detto (ride, ndr).
In questo caso è un film sulla tua vita e la tua vita è veramente un film…
Sì, anche se non sono ancora morta (ride, ndr).
La vita ti ha permesso di esprimerti in più arti, ma io credo che ci sia sempre una gerarchia. In modo, forse, un po’ naif ti chiedo: cosa ti è piaciuto fare di più? Cantare, recitare, dipingere ?
Dipingere è una cosa che si fa in solitudine. Cantare e recitare dipendono da altri, da tutta una macchina che si muove attorno. Dipingere è come scrivere. Sei sola davanti a una tela bianca. Ti spogli completamente dalle sovrastrutture. É un processo intimo. Viene da dentro. Questo mi piace molto. Adoro cantare e recitare, ma c’è di mezzo la tecnica, la tecnologia e un team di persone. A volte registro un pezzo e neanche riconosco la mia voce. Mi dico: “allora so cantare” (ride, ndr). L’arte pittorica, invece, scorre nelle mie mani, in modo artigianale, antico, con l’olio di lino e le macchie dei colori. Devi aspettare, far asciugare, cambi idea, ci rimetti nuovi colori. É una cosa lunga e quando partorisci l’opera ti rendi conto che è veramente un figlio, il frutto di una mano materna.
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